Ciao a tutti, eccomi qui, Lisbet, Bet per gli amici. Sono nata a Stoccolma trentacinque anni fa. Sì, avete indovinato, sono proprio quella lì, la svedese purosangue, il sogno proibito di tutto il parco uomini mediterraneo, nessuno escluso, dai cinque ai novant’anni. Occhi celesti e chioma d’oro al vento. Gambe da gazzella; alta, flessuosa. Sorriso irresistibile. Shorts & Top. Chiamami Peroni sarò la tua birra.
Dalla mia prima calata a sud col sacco a pelo, a quindici anni, avevo già capito come funziona: i maschi ti amano, le femmine ti odiano. Tutto chiaro, non fa una piega. Nel mare nostrum, mai sei ignorata, esisti sempre nello specchio degli sguardi, nella scia dei pensieri. La gente ti scruta nel riflesso dei vetri dei negozi, dagli specchietti retrovisori delle automobili, dietro gli occhiali da sole. Ti fissa, ti squadra, ti pesa. Sorride, parla, fischia, fa gesti. Mai passi inosservata, e ogni volta che rientravo a Stoccolma, nel grigiore del nulla, nell’invisibilità, volevo saltare di nuovo sullo stesso treno e ritornare in quel mondo incantato dov’ero principessa e sirena.
Ma il Sud, per me, è soprattutto Mare. Non il Baltico, gelido e cupo persino in estate.
Mediterraneo.
Caldo.
Libertà. Infinito.
Luce e colori.
Sole e acqua.
Ogni centimetro del tuo corpo è vivo, arroventato al sole, rinfrescato in acqua, abbandonato al fluire di giorni senza tempo.
Sognando il Sud di lontano, rimpiattandolo in un remoto angolo del mio cervello, ho continuato a vivere in Svezia. Gli anni passavano. Mi sono laureata in legge senza colpo ferire, a pieni voti; master in LLM – diritto internazionale - e poi, non chiedetemi come, a ventisei anni ero già finita a Toronto, Coca Cola Law Department. Wow, challenging! Ero diventata una work alcoholic. Una tigre, volevo affermarmi a tutti i costi. Ecco il mio timetable da lunedì a domenica, feste comandate escluse: casa–lavoro-casa. Ambizione e grinta, adrenalina pura al mille per mille, meglio della coca; macinavo successi e andavo avanti come un bulldozer in tailleur.
Poi, un giorno, l’amore.
Ho incontrato Pieter, un ingegnere chimico olandese originario di Rotterdam, anche lui assoldato by The Coca Cola Company. Ci siamo conosciuti durante uno di quei tristi eventi aziendali inventati dalle Human Resources per consolidare il team, per renderlo più compatto, aggressivo e competitivo nella giungla del libero mercato: Lake Ontario, regata, metà maggio. Un freddo cane, una banda di sciamannati incapaci. Io e Pieter abbiamo vinto la coppa. Dico io e Pieter perché gli altri in barca non sapevano neanche allacciarsi il giubbetto salvagente. Del resto, avrebbe vinto anche un bambino alle prime armi con la sua deriva: le altre barche giravano in tondo senza meta, prede di equipaggi allo sbaraglio, usi unicamente a picchiettare su tastiere o ad alzare cornette del telefono. Siamo finiti a letto quella sera stessa, a bere champagne dalla coppa col gambo a forma della celeberrima Vintage diamond label Coca Cola bottle, 1906.
Da allora, io e Pieter non ci siamo più lasciati.
Sempre lo stesso timetable, casa-lavoro-casa, solo che a casa scopavamo come matti.
Tre mesi dopo, mi sono trasferita da lui.
Sei mesi dopo, ci siamo sposati.
Quando Pieter non contava quante bollicine ci sono in un metro cubo di bibita gasata e io non difendevo la Coca Cola dalle accuse infamanti di violazione dei diritti umani, lavorativi e sindacali, volavamo in Grecia, saltavamo su una barca e, mollati gli ormeggi, ci perdevamo tra Cicladi, Ionie e Dodecaneso; ci spingevamo fino in Croazia, su, nella sacca dell’Adriatico, oppure, vento in poppa, veleggiavamo ad oriente, rotta Cipro.
Questa era la nostra vita, e mi andava benissimo così: due professionisti di successo, ben pasciuti e coccolati sotto l’ala protettrice dell’immane chioccia Coke. Loft immenso con vista su Lake Ontario, ambiente sociale multiculturale e multietnico (quando, una volta al mese, avevamo un weekend libero dal lavoro; oppure se non balzavamo sul primo aereo, destinazione Atene, per ossigenarci il cervello e il cuore nel mar Egeo).
Poi sono nati Björn e Greta, e l’incantesimo del nostro microcosmo borghese si è frantumato in mille pezzi. Non è accaduto all’improvviso, le crepe si sono aperte a poco a poco. Pian piano, niente aveva più senso. La carriera, le promozioni, i bonus non ripagavano le giornate e i weekend dedicati al lavoro e sottratti ai miei bambini, parcheggiati in un asilo nido di lusso, o in balia di babysitter iper-referenziate. Pieter aveva preso a viaggiare negli stabilimenti Coca Cola di mezzo mondo, pagato a peso d’oro e trolley sempre pronto. Mi faceva l’amore tra un viaggio e l’altro, stordito dal jetlag e dai report che doveva consegnare il giorno successivo. Scopava col ritmo meccanico di un marine yankee, sapete, quando fanno le flessioni, nei film d’azione c’è sempre la scena delle flessioni. Mi sono insospettita e ho domandato ragguagli: così, ho scoperto che negli alberghi dove pernottava faceva sempre due ore di training al gym dell’hotel per mantenersi in forma, una alla mattina e una alla sera. Orrore, il mio Pieter un palestrato! Un Big Jim con personal trainer a seguito! Lui che ha sempre fatto sport all’aria aperta, per gioia di vivere! Come eravamo caduti in basso.
La nostra splendida casa sembrava un museo d’arte moderna. Nel giorno di chiusura, ovviamente, cioè di lunedì, quando non sono ammessi neanche i visitatori. Il vuoto. Il deserto. E, infatti, un paio di riviste di design hanno scattato foto e scritto articoli encomiastici. Ricordo di essermi seduta con la rivista sulle ginocchia, fissavo il reportage e piangevo. Il pezzo si intitolava così: The King of Toronto Lofts, a Corner of Modern Paradise. Avevo già messo a letto i bambini. Le lacrime allargavano dei pois umidi e rotondi sulla carta patinata. Devo aver pianto per ore, in silenzio, perché Pieter tornava dal Brasile e mi ha trovata ancora lì verso mezzanotte.
Ha posato il trolley in un angolo e si è allentato il nodo della cravatta.
Poi ha stracciato la rivista d’arredamento, pagina per pagina e mi ha presa in braccio sul divano, cullandomi come una bambina.
“Basta, da oggi cambiamo vita.” ha detto.
E così è stato.
Quella notte abbiamo scopato come la prima volta, mancava solo la coppa col gambo a bottiglietta. Non l’abbiamo rimpianta, faceva già parte del passato. Nella foga della passione, ho rovesciato un bicchiere di cognac sul tappeto afgano che valeva una fortuna. Ne abbiamo riso; Pieter mi ha versato il resto del cognac tra i seni e sulle cosce e ha preso a leccarmi.
E’ stato un buon inizio.
Siamo partiti vento in poppa. E’ stato tutto facile.
Coca Cola bye bye, buonuscita da capogiro inclusa.
Compriamo subito una barca a vela in un cantiere di Genova, Italia. Una magnifica Bavaria 50, nuova di zecca, lunghezza 15.40 metri, versione cinque cabine con tre bagni, tutti dotati di doccia; posti letto dieci più due.
Poi l’agenzia immobiliare: For Sale: Luxury loft, Toronto, marvelous view over lake Ontario. Detto, fatto. Tre settimane dopo, eravamo dal notaio con un architetto di grido, che ha trasferito sul nostro conto una cifra esorbitante.
Investiamo i nostri risparmi in un portafoglio nutrito e diversificato con l’aiuto di Timothy Parker, nostro financial advisor e buon amico, che ci guarda allibito, come fossimo marziani.
“Ma davvero andate a vivere su una barca? Gesù! Mi viene un attacco di claustrofobia al solo pensiero! Nel mediterraneo? Gesù!!! Vi ha dato di volta il cervello? Per sempre? Gesù!!!!!!! E quando finiranno i soldi? Perché prima o poi i soldi finiranno, se siete in vacanza trecentosessantacinque giorni all’anno!” raffica di domande atterrite.
“E’ una barca grande, Tim, una reggia, quasi come il loft!” scherza Pieter “Quando finiranno i soldi, entreremo nel business del turismo, se sarà necessario, altrimenti ci godremo la nostra libertà. Bisogna uscire dal sistema, Tim, o esci, o lui ti distrugge, no way.”
Pieter è sicuro di sé, sorridente.
“E i bambini?” Tim si gioca l’ultima carta, l’infanzia violata.
“Greta e Björn hanno due e quattro anni. Impareranno un sacco di cose in barca. Prima di tutto a sentirsi liberi, a non essere schiavi di nessuno, a scegliere. Per la scuola, si vedrà quando sarà il momento.” rispondo serena; so che nei miei occhi risplende l’azzurro del mare, sono trasparenti e leggeri come i miei pensieri.
“Boh, in bocca al lupo, ragazzi… per me è una follia! Siamo amici, non posso tacere! Comunque… siete adulti e vaccinati, per carità… state attenti, però…” Tim capitola, scuote la testa, ripone i documenti firmati nella sua ventiquattrore. Ci abbraccia e se ne va, sconsolato.
Lo guardo dalla finestra. Ventiquattrore tra le gambe, sta indossando il cappotto, rispondendo al blackberry, cercando il telecomando dell’auto. Tutto insieme. E’ incazzato, forse parla con un cliente scontento. Intanto, scende la pioggia, fitta, gelida. Tim gesticola, discute rabbioso; poi si infila nella sua BMW e parte sgommando.
“Dio mio, meno male che è finita per noi questa vita!” sospiro, ed provo pietà per Tim.
Ricordo il primo giorno sulla barca come fosse ieri. Pieter l’aveva chiamata Lizbet in mio onore. Era il 27 di aprile. Sembravamo due bambini folli di gioia. Uscivamo dal porto antico di Genova e litigavamo per il timone, Björn e Greta ci fissavano buoni buoni seduti sui panchetti, mano nella mano. Erano grida e abbracci. La barca zigzagando ubriaca ha preso il largo e, una volta in mare aperto, ha spiegato le sue vele arcobaleno, volteggiando come una farfalla variopinta.
E’ così che mi sono sentita anch’io: bozzolo, crisalide e, finalmente, farfalla.
Puntammo ad ovest, Nizza. L’idea di massima era di passare l’estate tra Francia e Spagna, (Marsiglia, Barcellona, Baleari, Valencia e tutta la costa spagnola a sud, in Andalusia fino a Gibilterra) e di costeggiare il Nord Africa in inverno: Marocco, Algeria, Tunisia; poi su, Sardegna, Corsica, Sicilia. E dopo chi lo sa. Non facevamo programmi, non avevamo agendine elettroniche; i cellulari e il laptop erano solo strumenti, non oggetti di culto tirannici che scandivano le ore della nostra vita. Come per magia, si erano trasformati in cose senza importanza. Ormai eravamo fuori; le catene della dipendenza si erano sbriciolate per sempre.
I primi mesi non li dimenticherò mai. Ci sentivamo come su di un vascello pirata, oppure sull’Isola che non c’è di Peter Pan. Ogni giorno scoprivamo posti nuovi, ogni giorno era un’avventura in cui ci imbarcavamo con i nostri figli; eravamo diventati una famiglia di quattro bambini. Non credo di essere mai stata così allegra con Greta e Björn, così leggera. Era tutto facile, anche quand’era difficile. Nel Golfo del Leone, ad esempio, ci siamo beccati una tempesta degna di quella descritta da Coleridge nei versi dell’Ancient Mariner. Nei pressi di Almeria, invece, una bonaccia mortifera. Non un filo di vento per tre giorni, temperatura dai trentasei ai quaranta gradi, giorno e notte, motore e motorino d’emergenza entrambi inspiegabilmente fuori uso (abbiamo scoperto poi che Björn, una mattina, preparando la colazione per tutti, aveva ben pensato di zuccherare la benzina, per darle più energia, ci ha spiegato). Alla fine, una barca di pescatori ci ha rimorchiati fino al porticciolo di San José, dove siamo approdati come i profughi di Lampedusa, Dio mi perdoni il paragone con quei disperati.
Poi è successa una cosa.
A Greta le è montata la febbre a quaranta e passa. Eravamo a Gibilterra. Non voleva saperne di scendere. Si era presa un’otite lancinante. Sbatteva e scuoteva la testa per il dolore. Gli antibiotici non facevano effetto. Dopo tre giorni, era così indebolita e annientata dalla sofferenza che se ne stava sottocoperta a piangere piano, la testina bionda sul pavimento, accucciata come un cane in agonia che guaisce senza capire cosa gli sia successo, eppure sa che sta morendo. L’abbiamo ricoverata in un ospedale in male arnese. Mio Dio, lì sì che ho perso il controllo. Sono come impazzita. Lì sì che avrei voluto volare in elicottero al primo ospedale di Toronto e trovare un’equipe medica all’avanguardia che si prendesse cura di mia figlia. Ho perso il controllo. Sono impazzita. Ho fatto una scenata orrenda nella hall dell’ospedale. Ho maledetto la barca, il medico che mi parlava spagnolo e non capivo un cazzo, l’ho afferrato per il colletto e gli ho strappato il camice. Ho maledetto l’incoscienza di Pieter che mi aveva trascinata in un incubo senza fine. Urlavo come un’indemoniata. Ho avuto una crisi di nervi per la prima volta nella mia comoda, dinamica vita. Pieter mi ha immobilizzata e un’infermiera mi ha iniettato un sedativo. Passata la notte, Greta stava lievemente meglio, la febbre era un po’ calata. Nei giorni successivi, gli antibiotici cominciavano a fare effetto, finalmente. L’otite se ne andava; ha lasciato Greta senza danneggiarle i timpani. Nel giro di una settimana, la bimba si era ripresa, zero conseguenze. Mi vergognavo e mi sentivo in colpa. Ho chiesto scusa a Pieter in ginocchio, ho abbracciato Björn domandandogli perdono per lo spettacolo di debolezza e prostrazione che gli avevo inflitto. Sono tornata dal medico spagnolo a dirgli che aveva salvato mia figlia e gliene ero eternamente grata.
Due settimane dopo, abbiamo ripreso il nostro viaggio.
Tutto era tornato come prima.
Passato lo stretto, puntavamo verso Cadice, eravamo emozionati, wow, la prima volta nell’Atlantico da soli, con la nostra barca. Brezza moderata. Io e Pieter ci sentivamo tanto Amerigo Vespucci e Cristoforo Colombo. Greta gattonava sottocoperta. Björn costruiva un veliero coi mattoncini Lego sul ponte. Tutto era tornato come prima. Eppure, a pensarci ora, in quei giorni in cui credevo che Greta morisse, qualcosa d’ineluttabile, di sotterraneo, era successo. Non eravamo più Peter Pan e Wendy sull’isola che non c’è, Campanellino aveva finito la polvere magica. Mio marito, lo so, non mi ha mai perdonato le sciagurate accuse che gli ho vomitato in faccia ingiustamente nell’ospedale di Gibilterra, ci sono parole che ti marchiano a fuoco per la vita. Björn, a quattro anni, aveva visto per la prima volta l’orrore della morte riflesso nei miei occhi. Ancora oggi, quando ha paura o è smarrito, quando si sente in pericolo, prima di strizzare le palpebre e portarsi le manine sulla faccia, sgrana gli occhi terrorizzato, ed è lo sguardo con cui mi fissava in quei giorni, uno sguardo muto, impotente di fronte a una catastrofe irreparabile, troppo grande per lui.
Da Cadice abbiamo ripiegato su Tangeri, Marocco, la "porta dell'Africa". Attracchiamo in uno Yacht Club nuovo fiammante, ricavato nel vecchio porto e destinato a ospitare solo approdi per barche private, l’insegna luminosa al neon, violetta. Sono rimasta affascinata da questa città di frontiera, sporca, decadente e caotica. Tangeri è abbandonata a se stessa. Gli speculatori edilizi impazzano sulle fastose rovine che, dagli anni Venti fino ai Cinquanta, hanno visto le feste leggendarie organizzate dalla miliardaria Barbara Hutton, o Rita Hayworth e Gina Lollobrigida apparire nel lampo dei flash dei paparazzi.
Nella Medina ho imparato a girare mascherata, con un bel caffetano e velo in testa, occhialoni da sole e via. Per una bionda, andare in giro nel Nord Africa è un’odissea, oppure, per usare una metafora più moderna, è come stare in un videogame dove incontri ostacoli dietro ogni angolo, cioè uomini che ti assediano. Ricordate Chiamami Peroni sarò la tua birra? Ecco, cento, mille volte peggio. Ne avevo abbastanza, cazzo! Pieter avrebbe dovuto farmi da bodyguard ventiquattrore su ventiquattro, armato di lanciarazzi, ovvio. All’inizio era divertente, folklorico. Ma il divertimento è durato poco. Mi sentivo assediata e alla fine non uscivo più per non trovarmi nei casini. Rimanevo a bordo.
A bordo, però, non avevo un mio spazio: la barca era il regno, il territorio indiscusso di Pieter. A parte occuparmi dei bambini, cucinare e dargli una mano durante la navigazione, stavo lì a girarmi i pollici. Pieter decideva quando si salpava e per dove. Seguiva la meteo, teneva i contatti radio, sbrigava la burocrazia portuale, si occupava di rifornimenti, manutenzione e cambusa. Persino le pulizie le faceva lui. Era affaccendato e contento tutto il giorno. “Lisbet”, la barca “Lisbet”, ovvio, non io, era la sua creatura e il suo mondo, e ne era perfettamente felice. Io e i bambini eravamo suoi ospiti, non so come spiegare. Conoscevo la legge non scritta della navigazione: “Su una barca c’è un solo capitano, e comanda lui”. E’ come in cucina, anche in cucina c’è un solo cuoco, e comanda lui. Avevo accettato che il comandante fosse Pieter, non fraintendetemi, però gradualmente mi sentivo spogliata di me stessa: amavo occuparmi di Björn e Greta, ma non sono mai stata una mamma a tempo pieno. A bordo non avevo task impegnativi, a terra non potevo azzardarmi a mettere il naso fuori dalla riserva indiana dello Yacht Club.
Ero prigioniera della mia libertà.
Ho sempre odiato gli ossimori, ma era proprio così.
Ho cominciato a fumare, con disapprovazione di Pieter.
Con skype, appena potevo, chiamavo i miei ex-colleghi, gli amici, addirittura i familiari in Svezia. Ecco cosa mi dicevano:
“Sei in Marocco? Che fortuna, qui a Toronto dieci sottozero, cara mia!... El Jabha? No, non so niente di El Jabha, ma solo il nome mi fa pensare a dune, sole e tè nel deserto!” oppure:
“Tesoro come ti invidio, devo consegnare un memo difensivo di duecento pagine entro mezzanotte!... Dire che sono disperato non rende l’idea. Se perdiamo, scatola sulla scrivania e Coca Cola adieu, calcio in culo assicurato! Nel caso, prendo il primo volo per Marrakech e vengo a fare il mozzo sulla vostra barca, che ne dici?... Dove hai detto che siete?... Al Hoceima? Affare fatto, segnato in agenda, ora devo scappare, Bet, scusa, ti faccio sapere com’è andata, prega per me!”
O ancora, mia sorella Estrid:
“Sì, Bet, mamma è scivolata sul ghiaccio del vialetto… no, niente di rotto, solo una slogatura alla caviglia e una distorsione del polso, nulla di grave… No, non ti preoccupare… ma figurati, non c’è bisogno che tu venga su, ci mancherebbe! Tra un mese torna come nuova, lo sai che mamma è una roccia!”
Telefonavo. Mi facevo raccontare la vita degli altri, volevo dettagli; mentre parlavano li vedevo fare cose, prestar fede ad impegni, risolvere preoccupazioni. All’inizio, li compativo: “Poveretti, sono sempre più stressati! Invece noi qui in Marocco viviamo da pascià: dolce far niente, mare, sole, pesce alla brace e frutta fresca tutti i giorni!”. C’era qualcosa di falso nei miei pensieri, volevo convincermi, o perlomeno rassicurarmi.
Un giorno, invece, mi sono detta la verità: “Altro che poveretti loro, poveretta tu! Li stai invidiando Bet, li stai invidiando! Sei una sfigata e basta, cala la maschera!”. E’ stata un’epifania. E’ accaduto mentre bevevo una tazza di tè. Un’epifania ma anche una liberazione. Avevo acceso l’ennesima sigaretta: invidiavo i miei ex-colleghi, i miei amici, mia sorella! Io, io che non avevo mai invidiato nessuno in vita mia! Quest’ammissione con me stessa mi ha lasciata sbigottita e confusa. Ho cominciato a mettere insieme i pezzi del puzzle: forse era il Nord Africa che non andava, era per questo che mi sentivo sempre più frustrata. Non parlavo con nessuno, telefono a parte; con Pieter non ci dicevamo più un granché; io non avevo niente da raccontare, e le volte che volevo aiutarlo capivo che se la cavava meglio da solo. Parlavamo dei bambini e con i bambini, questo sì. Non facevamo neanche più l’amore così spesso: a furia di stare gomito a gomito giorno e notte, avevamo perso il desiderio l’uno dell’altra, la consapevolezza di noi, dei nostri corpi. Non mi sentivo più donna, femmina per il mio uomo. Un giorno, l’ho visto guardare fisso una barca: c’era una ragazza sopra, prendeva il sole. Non era né bella, né brutta, ma negli occhi di Pieter leggevo che vedeva in lei una donna; era un maschio che avvistava una femmina: scrutava il suo corpo, il profilo del viso, i capelli. Poi si è girato verso di me e mi ha chiesto una cima: sorriso gentile, sguardo vuoto, voleva solo la sua cima e nient’altro.
L’inverno è stato un inferno, scusate il gioco di parole da due soldi, ma è stato proprio così: abbiamo costeggiato l’Algeria fino in Tunisia e ogni giorno c’era un problema. Porticcioli schifosi e non attrezzati, acqua potabile razionata, uno squarcio nella randa, una notte hanno tentato un furto e puntualmente dovevamo pagare “mazzette” ai portuali di turno. Ogni tanto mi ammutinavo perché volevo prendere il comando; era più forte di me, mi sentivo ridotta al fantasma di me stessa. Pieter, allora, ristabiliva l’ordine sulla barca alzando la voce, e la gerarchia ritornava quella di prima. I bambini ci guardavano ammutoliti. Anche Greta e Björn erano cambiati: erano sempre nervosi, sentivano la tensione nell’aria che a volte si tagliava a fette e reagivano come potevano. Greta faceva i capricci, lei che era sempre stata una pacioccona, dove la mettevi stava; Björn si rabbuiava in corrucciati silenzi. Costruiva grattacieli di mattoncini Lego che immancabilmente franavano e allora ricominciava daccapo, cocciuto, autistico. Io fumavo, la mandibola serrata e l’occhio perso in mare.
Una volta, ho provato a parlarne con Pieter. Eravamo sul ponte, i bambini riposavano di sotto. Non ha voluto neanche ascoltarmi, lui che un tempo era così conciliante, sempre il primo a fare la pace. Per lui, adesso, andava tutto bene:
“La barca è perfetta, Bet, i bambini sono bambini, non puoi pretendere che siano sempre di buon umore o che non facciano capricci ogni tanto. Sai una cosa?” e poi l’affondo, non me lo sarei mai aspettato da Pieter:
“Se c’è qualcosa che non va in barca, quella sei tu, Bet, scusa se te lo dico. Sei tu che non sai quel che vuoi. Eri stressata e depressa a Toronto. Ok, allora abbiamo venduto tutto e siamo andati per mare. Adesso sei stressata e depressa anche per mare. Se c’è qualcosa che non va, quella sei tu. Meglio se ti chiarisci le idee, Bet!”
Ero rimasta senza fiato. Mai Pieter mi aveva parlato in quel modo. Non so cos’era successo in dieci mesi di navigazione, ma qualcosa di orrendo era accaduto. Non avevo bisogno di capire, lo sentivo e basta. L’ho visto saltare a terra come un puma e allontanarsi sul molo. Le spalle larghe, abbronzato, biondissimo. Ma quel che più mi ha fatto impressione è stato il suo modo di camminare, non so come spiegarvi: da conquistatore, indipendente, autonomo, padrone di se stesso, della sua vita. Era un nuovo Pieter, un Pieter che non conoscevo. Ora esistevano solo lui, la sua barca e il mare. Io e i bambini eravamo diventati delle comparse; accessori della barca, accessori della sua nuova vita.
All’inizio del racconto, quando vi ho narrato del mio primo incontro con Pieter, ho detto che da quel giorno non ci siamo più lasciati. Ho mentito. Dolosamente. Volevo raccontarvi una bella storia a lieto fine, stile “e vissero felici e contenti”. Vi chiedo scusa, non era per ingannare voi, era per ingannare me stessa. Volevo riscrivere la mia vita, volevo illudermi un po’; giusto il tempo di buttar giù queste pagine.
Io e mio marito ci siamo separati dopo tredici mesi di navigazione, quando oramai in barca era guerra aperta. Sono rientrata in Canada con i bambini. Ottawa, Ontario. Adesso lavoro all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Niente stipendi stratosferici come da mamma Coke, ma amo quello che faccio e credo in quello che faccio. Björn e Greta si stanno riprendendo; l’estate prossima andranno in barca col papà, non vedono l’ora; contano i giorni che li separano dalle vacanze sul calendario. Pieter adesso organizza crociere in Grecia per i turisti e sembra felice, anche se gli mancano da morire i bambini, ovvio.
Io vado avanti, cercando di ritrovarmi a poco a poco.
Cerco di capire cosa ci è successo.
Ancora non ho smesso di colpevolizzarmi per atteggiamenti sbagliati e scelte avventate, ma credo che la strada sia lunga.
Cerco di non rimpiangere cosa non è stato, ma la mia illusione ricorrente è ancora quella di fare stop rewind, come in un film preso in affitto.
Ieri, un collega nuovo mi ha portato il caffè in ufficio. Si chiama Peter, anche lui, solo si scrive senza la “i”.
“Grazie Pieter!” gli ho detto, e annusavo l’aroma buono per trovare la forza di ricacciare indietro le lacrime.
giovedì 8 ottobre 2009
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