Vita di Mare

"> Mare puro Vita vera

venerdì 4 settembre 2009

220 Volt

27 febbraio- 8 marzo 2009. Caraibi. British Vergin Islands.
Traversata: da Tortola rotta verso Anegada, poi puntiamo a Virgin Gorda, Marina Cay e Jost Van Dick (dall’Olandese Volante, il leggendario pirata che bazzicava questi mari); infine Sandy Cay, Norman e Salt; dulcis in fundo, Cooper Islands.
Barca: 1 Catamarano 43.4.
Skipper: Piero e Gianmaria – 2 skipper a turno, in base al meteo o all’esigenza dell’equipaggio.
Membri d’equipaggio: Raffaella, Mariella, Laura e Daniela; Paola, Vladimir, Vito e Sergio – totale: 8.

Non voglio giocare a fare il lupo di mare nostalgico, capitemi bene.
In vita mia, mai mi sono fatto fotografare con un sorriso idiota accanto a un merlin appena pescato, parola d’onore. Né fumo havana sul ponte, scolandomi un bicchiere di rum dopo l’altro, la fronte corrugata e lo sguardo perso oltre l’orizzonte. Non rompo i coglioni a tutti raccontando di quando i pirati ci hanno attaccato in Malesia. No, non dò nemmeno in escandescenze le volte che inciampo nei tacchi a spillo lasciati il giro dalle donne. Infine, non batto ciglio se chiedo di passarmi un parabordo e qualcuno arriva, mezz’ora dopo, con un salvagente.
Eppure, da allora, da quando iniziai a navigare, voglio dire, un sacco di cose sono cambiate.
Le prese, ad esempio. Le prese a 12 e a 220 volt, ai miei tempi, erano un optional non particolarmente richiesto a bordo. Gli equipaggi, incantati da peregrinazioni marinaresche e affaccendati tra mille novità d’armamentario nautico, neanche sapevano dove si trovasse una presa, né se la loro bagnarola ne fosse provvista. A fine crociera, sbarcavano tutti sul molo, gli occhi lucidi, ubriachi di sole e oceano, tirandosi dietro le sacche in tela cerata e rammaricandosi di non esser più cullati da quei beccheggi e rollii che i primi giorni li facevano vomitare.
Una volta, era così. Adesso, non più.
A titolo empirico, provate a navigare, oggi, con un equipaggio composto da 8 individui, dotati ciascuno dei seguenti gadgets pro capite: 1 Ipod, il celeberrimo lettore mp3 by Mac, 1 macchina fotografica digitale di qualsiasi marca, 1 telefonino e/o Smartphone, modello Blackberry o similare (Iphone, notebook etc. etc.). Gadgets aggiuntivi: certuni si portano il laptop e, già che ci sono, pure la cinepresa. Ho intravisto persino un Silkepil, ma mi sono girato dall’altra parte. Se, dunque, avrete il fegato di lanciarvi in quest’esperimento pilota, sappiate che tempo ventiquattr’ore disprezzerete l'umanità intera per le bassezze, le bugie, gli atti di opportunismo; le smancerie, i pianti e i colpi bassi a cui assisterete, il tutto pur di usufruire di quel "buchetto" che eroga energia a basso voltaggio (i.e. la famosa presa).
Tutti agguerriti, appostati, pronti ad infilare lì dentro le loro prolunghe digitali. Ma a me sì che una presa serve davvero: in barca il capitano sono io, se non vi spiace, se qualcuno non se ne fosse accorto. In quel "buchetto", io ci infilo il mio GPS portatile "Geonav Gipsy", utilissimo quando non voglio rientrare sottocoperta per conoscere il punto nave e decidere il da farsi senza lasciare i comandi. Utilissimo per non fare stronzate in mare aperto, specie con un equipaggio che se ne sta tutto il santo giorno a pancia all’aria sul ponte, ad ascoltare musica dagli auricolari, o a mandare sms. A volte, per socializzare, si passano tubetti di crema solare. Degli autistici, insomma.
In generale, gli equipaggi moderni sono così.
In particolare, sono tornato fresco fresco dalle British Vergin Islands, e il mio equipaggio era esattamente così. Forse esagero, forse è il jet lag e poi solo stamattina ho già ricevuto sette telefonate di lavoro. Mails no comment: battiamo ogni record, brindiamo alle trecento in dieci giorni. Però, però, vi giuro, crisi da rientro a parte, se solo penso alla presa 220 volt di quel fottuto catamarano, lì, sotto il quadro di comando, il sangue mi sale alla testa, mi prudono le mani e mi vien voglia di dare una sberla al primo che mi capita a tiro; voi non avete idea, quindi, girate al largo, se ci tenete alla pellaccia.
Allora, adesso vi racconto tutto per filo e per segno, così mi sfogo e se tante volte vi vien voglia di fare una crociera con me, saprete già dove mettere i vostri Ipod e compagnia bella.
Yacht Club a Tortola, 27 febbraio. Di buon mattino, mettiamo piede per la prima volta sul catamarano. Io e Piero facciamo il check in della barca, palmo a palmo, mica che poi ci troviamo nei casini. Mentre controlliamo l’attrezzatura, Sergio mi avvicina preoccupato, con una specie di carpetta tra le mani:
“Gianmaria, non trovo le prese… sai, ho portato il laptop.” Me lo mostra, come un cameriere quando ti offre un flute di champagne su un vassoio d’argento. Peccato che il flute non c’era.
“Guarda sotto il quadro di comando, di solito è lì.”
Scatto felino, Sergio si infila lì sotto.
“Giusto, giusto, eccola… Come è lì, ce n’è una sola?”
“Una sola. Una presa. Un laptop. Equazione perfetta. Controlla che funzioni, per cortesia. Ci devo attaccare il navigatore.”
Sergio sfodera il pc portatile dalla carpetta; febbrile, collega quel suo giocattolo al cavetto e il cavetto alla presa. Sorriso ebete.
“Ok, funziona, Gianma.” non deve aver sentito la mia ultima frase, perché sentenzia ad alta voce, a beneficio di tutti: “Udite, udite, ragazzi, questa sarà la mia presa diretta: in dieci giorni finirò il best seller del secolo, il Manuale delle idee vincenti!”
“La nostra presa diretta, Sergio!” Vito allunga il suo nasone verso la presa, quasi ce lo ficca dentro “Bella idea il laptop… ogni tanto posso attaccarmi al tuo pc per controllare la borsa? Se dai Caraibi faccio la speculazione del secolo, giuro che ti do il 3% di commissione, facility fee!”
“Il 5%? Affare fatto, Vito! Mi raccomando, però: un profitto netto dai 500'000 in su!”
“Ehi, ehi, maghi del Dow Jones, altolà, qui c’è gente che lavora!” si intromette Laura, brandendo il suo blackberry nuovo di zecca, minacciosa. Toglie il cavetto del pc e infila il suo nella presa. Lo schermo si illumina, riverbero azzurrino sugli occhiali Chanel “E luce fu! Ciurma, devo correggere un mare d’esami in questa crociera, se no, meglio mollare la cattedra all’università e vengo a fare la barista qui a Tortola!”
“One moment, please: se volevate lavorare, tanto valeva rimanere nei vostri belli ufficetti milanesi!” urlano Mariella e Raffaella da una delle cuccette “Qui ci sono Canon & Nikon da ricaricare quotidianamente, reporters ufficiali British Virgin Islands Cruise, con tanto di licenza!”. Stanno già disfando i bagagli. Avevo chiesto d’aiutarmi a fare il check; dovevano solo contare i giubbini di salvataggio.
“E il mio fiore all’occhiello?” Vladi tira fuori dal taschino della polo un minuscolo Ipod bianco, sottile come una carta da gioco.
“Mp3 presente! Raga, io senza musica mi suicido!” Paola dondola, a mo’ di pendolo di Foucault, il suo mp3 rosa shocking. Anche il filo è rosa shocking. Forse li vuole ipnotizzare.
Daniela, che ancora non aveva proferito verbo, irrompe cinguettando:
“Iphone! Iphone! My-day! My-day! Vittorio è a un convegno a New York, gente, iperdepresso: SOS psicologico, media telefonate: 7-8 cada dia, 30 minuti cada una! Devo metterlo in carica tutti i santi giorni, altrimenti Vittorio si spara!”
Li osservo, prima tutti assieme, quel gruppuscolo in bermuda e t-shirt che ha accerchiato la presa, poi li fisso in faccia uno ad uno. Ammiccanti, aggressivi, ognuno col proprio aggeggio in mano a cercare di prevaricare l’altro. My God. Meu Deus. Cerco di ricordare quella frase di un guru indiano che in certe occasioni mi dava tanta calma e serenità. Niente da fare, tabula rasa. Allora, respiri profondi, quattro o cinque, tipo training autogeno. Ok, a questo punto intervengo.
“Ehi, ehi, equipaggio, fermi tutti. Dunque, gestione presa 220 volt. Regola generale: ognuno tiene in carica il suo coso a turno: si può staccare il coso degli altri già in carica solo quando la lucina è verde, cioè quando è completamente carico, mi sono spiegato? Facile, no? E’ una questione di rispetto. Elementare, Watson! Poi, eccezione numero 1: il mio navigatore ha la priorità su tutti i cosi degli altri, altrimenti non sappiamo dove cazzo andiamo. Eccezione numero 2: il cellulare mio e di Piero hanno la priorità su tutti i cosi, navigatore a parte; se la radio di bordo non funziona e siamo nella merda, ci servono. Che ne dite?”
Mugugni e cenni di assenso. L’argomento è chiuso, ho pensato. Povero illuso.
“Perfetto, visto che la questione è risolta, forse dovremmo darci una mossa e salpare, mica vogliamo rimanere ormeggiati allo Yacht Club, con le meraviglie che ci aspettano là fuori! Forza e coraggio!”
Primo giorno di navigazione, mattinata, da Dio. Puntiamo a Nord.
Tardo pomeriggio. Anegada ci appare nell’incanto della barriera corallina che la circonda, un colpo dritto al cuore. Così l’aveva vista Colombo durante il suo secondo viaggio, correva l’anno 1493, e così la vediamo pure noi: una lingua verde, pigra, morbida. Sembra uno degli orologi molli di Dalí restituito alla vita, senza la desolazione dei suoi sfondi mortiferi, assetati e desertici. Scivola sull’oceano, piatta; intorno, il ricamo a chiacchierino delle spiagge; la sabbia luminosa, candida, accecante. In giro in giro, come se già tutto questo non bastasse, aureole fluide di mare azzurro; irreale, fluorescente. Non so spiegare la commozione primordiale che mi prende ogni volta che ritrovo un paesaggio interiore, potremmo dire un paesaggio dell’anima, se vogliamo essere banali. E’ un’emozione che parte dagli occhi e arriva al petto e scende giù, fin nelle viscere. E, ogni volta, mi dico che andare per mare è qualcosa che nessuno mi potrà mai togliere, perché è l’aria pura che respiro.
Mezzo ubriaco per quel caleidoscopio di colori, scendo sottocoperta a prendere il navigatore, che avevo lasciato in carica. Se ne sta buono buono sul quadro di comando, ancora un po’ esaurito. Mancano due tacche. Attaccato alla presa, c’è l’Mp3 di Paola. Non so se mi indigna di più per il fatto che sia rosa shocking; comunque, mi sento prevaricato. Vado a chiedere spiegazioni.
“Gianma, quando ho messo l’Mp3 c’era l’Iphone di Daniela, non so niente del tuo navigatore.” Taglia corto Paola, pure leggermente seccata. Acchiappa il suo coso shocking, auricolari e musica a palla. Jovanotti. Penso io: “ai Caraibi Jovanotti, ma sei fuori?”. Riattacco il navigatore, cerco con lo sguardo Daniela, presunta colpevole. Se ne sta appollaiata a poppa, dà la schiena ad Anegada, tutta curva sull’Iphone che tiene appiccicato all’orecchio con la mano destra. La sinistra, invece, gesticola nervosa.
“Dai Vittorio, non fare così… sì, me l’hai già detto che da tre giorni sei sotto un diluvio… a New York le strade sono completamente allagate… sì, sì, lo so… vabbè, se qui c’è il sole che posso farci, mica è colpa mia?!”
“Paola, hai staccato tu il navigatore?”
“Scusa? No, Vittorio, dico a Gianma, aspetta un secondo… dimmi!?”
“Paola, hai staccato tu il navigatore?”
“Cosa? Quale navigatore? Ah, e che vuoi che ne sappia io, c’era attaccata una Canon… sì, Victor, certo che ti ascolto. Lo so, è scandaloso che non abbiano inserito nel programma il tuo intervento, semplicemente scandaloso! E parlane con quel Freeman, no? Non era lui il tutor di riferimento? Richardson? E che c’entra Richardson?”
Siccome non me ne frega un cazzo né di Vittorio, né di Richardson, me ne vado a prua, anche perché ho una voglia pazza di buttare a mare Daniela: è proprio in posizione, lì, sul bordo, gambe penzoloni. Basta una spinta e pluf!, in un colpo solo mi libero di lei, del fottuto Iphone, e pure del congresso di Vittorio, tre x uno.
Piero è al timone che segue la mia indagine con aria sconsolata.
Mariella e Raffaella ormai le chiamiamo Canon&Nikon. Dall’inizio del viaggio – Malpensa, meno di due giorni fa – devono aver scattato due miliardi di foto. Quando piscio fuori bordo, apro bene le orecchie, perché mi sembra di sentire il click dell’otturatore. Stanno mitragliando Anegada con i loro teleobiettivi, fanno più furore di un gruppo di turisti giapponesi davanti alla Pietà di Michelangelo. Quando arrivo, neanche si girano. Click, click.
“No, no, c’era un blackberry!”
Click, click.
“O forse l’Ipod di Vladi?! Non mi ricordo più!”
Click, click.
Click, click. Click, click.
Click. Click. Stronze! Anche il grilletto di un revolver fa click, click. Puntato alla tempia.
Click. Click. Scarface. Gianmaria, calmati, la frase del monaco buddista, no, del guru indiano, ricordati quella frase, cazzo! Dietrofront, parto alla ricerca di Vladi. Sottocoperta, dagli oblò aperti, sento parole.
Voci concitate. Borsa, manuale, laptop. Sono Vito e Sergio.
Gridolini isterici. Blackberry, esami università. C’è pure Laura.
Voci concitate e gridolini isterici.
Rumore secco. Vetro in mille pezzi. Forse, bicchieri rotti.
Ma porca puttana, cazzo succede, ancora!? Ritorno sui miei passi.
Al timone, un Piero allibito mi fa cenno col capo, indica sottocoperta.
Scendo qualche gradino, mi affaccio: alterco della peggior specie. Bottiglia d’olio in frantumi. Straccio, schegge di vetro dappertutto. Grida (Vito e Sergio). Lacrime (Laura).
“Ho il deadline di questi fottuti esami entro stasera, lo volete capire o no?! Lo volete capire o no?!”
“E io ho investito 150'000 euro in Petrobras. 150’0000 euro, chiaro? Non centocinquanta centesimi, CENTO-CINQUANTA-MILA-EURO!!! Vi spiace se controllo se ho bruciato 150'000 euro?”
“E chi ti ha detto di investirli prima di andare in ferie? Madoff, per caso?”
“No, scusate, io devo fare l’editing di duecento pagine in dieci giorni. Duecento diviso dieci uguale venti. Come cazzo faccio se non mi lasciate mettere in carica il laptop!? Me lo spiegate voi? E all’editore che gli dico? Gli mando una cartolina dai Caraibi?”
Siamo al primo giorno.
Cerco con gli occhi Geonav Gipsy. Lo vedo: riposa, beato, di nuovo sul quadro di comando.
Il mio navigatore Geonav Gipsy è staccato, scarico, sempre due tacche in meno.
Contemplo quel putiferio surreale attorno alla presa. Mascelle serrate, cattiverie tra i denti, sguardi assassini. Olio che si spande pacifico sul pavimento del mio catamarano, tra arcipelaghi di isolette cristalline, i frammenti della bottiglia finita in mille pezzi, per l’appunto.
Solo il primo giorno. Ne mancano altri nove.
Ci risiamo, un’altra visione. Sempre Scarface, scena finale; la strage nella villa hollywoodiana. Al Pacino ammazza tutti, falcia i gangester rivali a suon di raffiche di revolver e mitragliette; fumo e fiamme, bagno di sangue. Calmati, Gianmaria, calma, mantieni la calma, porca puttana! Scuoto la testa, mi gratto la nuca. Riemergo sul ponte e accendo una sigaretta. Due circolini quasi perfetti salgono su, fluttuano tremolanti, sollevati dagli alisei, e svaporano nell’aria. Inspiro, espiro, quattro o cinque volte, come stamattina presto. Guardo fisso il mare. Anegada, lì di fronte, mi aspetta. Vergine, sdraiata sull’oceano, nel tramonto immemore dei Caraibi. Come per incanto, le baruffe chiozzotte digitali svaniscono nella brezza, nel crepitio delle vele, nei colori cangianti. E, all’improvviso, ecco la frase del guru indiano: Dimenticare è un dono di Dio (Maharishi Mahesh Yogi).

P.S. Nota dell’autore: I rimanenti 9 giorni di navigazione sono stati più o meno come il primo. L’escalation per il possesso della presa s’innescava a qualsiasi ora del giorno e della notte. I più opportunisti si svegliavano nel cuor della notte per infilare il loro jack nella presa. Un tempo si pensava ad altro…
Il Gps portatile, Geonav Gipsy, era spesso scarico, ma io e Piero ce la siamo cavata lo stesso, perché siamo della vecchia scuola, quando cotanta tecnologia era ancora fantascienza.
Vito ha perso il 10% del capitale investito in Petrobras. Laura ha corretto gli esami con un giorno di ritardo. Sergio ha fatto un editing un poco frettoloso del suo Manuale delle idee vincenti. L’Iphone di Daniela è caduto nel secchio dei piatti da lavare. Vladi si è tenuto ben stretto il suo passando intere giornate con le cuffie senza scambiare parola.
Non so se questo modo di andar per mare, senza viverlo come un tempo, sia imputabile più a forme patologiche del vivere quotidiano o ad aspetti sociologici. In ogni caso da approfondire…
In un altra crociera avevo un equipaggio "diviso dalle cuffie" ogniuno con il suo ipod ad ascoltare la sua musica che anzichè diventare elemento socializzante com'è stato per millenni in tutte le culture diventa ulteriore elemento di isolamento e solitudine: beata, ma sempre solitudine! D'altronde quando ho provato ad inserire il mio mp3 con supporto radiofrequenza per ascoltarlo tutt'insieme dagli altoparlanti della barca c'era sempre qualcuno a cui non piaceva il pezzo (e anche se l o faceva qualcun altro era lo stesso). Alla fine ho rinunciato. Ogni tanto qualcuno era talmente entusiasta di quello che stava ascoltando che offriva al vicino una cuffia per condividere il brano. Questo era il massimo di vicinanza e intimità per proare le stesse emozioni di chi ci sta accanto.Una volta la barca serviva anche a questo.

giovedì 3 settembre 2009

I Piatti e il Mare

Dicembre 2005. Ponte dell’Immacolata. Caraibi.
Traversata: da Guadalupa a Dominica e ritorno, sei giorni di navigazione. I chilometri non li ricordo.
Barca: GS43, 13 metri, un albero, non chiedetemi altri dettagli perché non ne so. Era una bella barca. E c'era pure un bel mare anzi, qualcuno diceva di non averlo mai visto cosi alto e impetuoso.

Skipper: tre, João, l’Ammiraglio (altrimenti detto l’Anzianissimo) e Piero. Soprannominati i Tre Tenori.
Membri d’equipaggio: sei, Vito, Mauro, Cristina, Federica, Tania e Laura (cioè io).
A parte Tania, che ci ha raggiunti da Roma, noi dell’equipaggio vivevamo tutti a Milano; ci eravamo conosciuti l’estate precedente a un corso di cabinato sul Lago di Como.
Una scuoletta di vela ruspante, stile vecchia guardia, dove "tutti cazzano e nessuno se la tira", per citare il motto impresso sulla carta intestata e stampato sulle t-shirt gialline regalateci durante la serata conclusiva. Non un posto per fighetti, insomma. Se non ricordo male, nessuno di noi s’era mai cimentato prima d’allora in un’impresa marinaresca così temeraria ed esotica.
Guadalupa con la sua forma a papillon ci aveva subito stregati, e riacchiappare l’estatein pieno inverno è l’ossessione ricorrente, il sogno proibito del milanese medio. Da parte mia, avevo trascorso le umide serate d’autunno metropolitano sfogliando la Lonely Planet, rileggendo Il vecchio e il mare, Isole nella corrente e altri racconti tropicali di autori poco noti. Certe sere, mentre sorseggiavo un bicchierino di rum acquistato alla Coop, ascoltavo musica caraibica e m’immaginavo il carnevale di Guadalupa; giocavo a fare gasse d’amante con la cordicella dei panni. Pian piano, partivo da Milano già mesi prima.
Sapevo cosa volevo da questo viaggio: la carezza degli alisei, li amavo già solo per il nome, i tramonti infiniti sull’oceano, un nuovo mondo da portarmi dentro quando sarei rientrata in ufficio, sotto il fuoco incrociato di avvocati iracondi, computer asettici, telefoni aggressivi e fax imperiosi. Lavoravo, infatti, in uno studio legale internazionale. Volevo godermi i Caraibi e la buona compagnia. Facile.
In barca, avevo scelto il mio ruolo ancor prima di salire a bordo, senza aspettare le
direttive di João: sarei stata il mozzo. Il mozzo è un personaggio stupendo, nonostante la letteratura marinara gli remi contro e lo releghi sempre nell’ombra; faceva proprio al caso mio: il mozzo è utilissimo nelle attività pratiche low profile (pulire, riordinare il casino etcetc.), mi sembrava un tipo autonomo e placido. E’ il beniamino di ogni ciurma vacanziera, perché svolge mansioni che nessun’altro si vuole accollare. Inoltre, essendo l’ultimo gradino della scala gerarchica, è felicemente estraneo alle lotte darwiniane, modello “esemplare
dominante”, che spesso scoppiano durante amene crociere, investendole in pieno con la
furia di un tornado, seminando a bordo incendiarie discordie. Insomma, fare il mozzo è una figata. Sono di natura pacifica, contemplativa e poco belligerante, amo lavorare in gruppo perché mi piace la gente e ho un rapporto affettuoso col mondo, e tuttavia rifuggo con orrore le tensioni superflue che, puntuali, serpeggiano in ambienti piccoli, microscopici come una barca in mare aperto. Mi sembrano un grottesco spreco di vita. Ancora non lo sapevo,ma più ti inoltri nell’oceano infinito, più finito diventa il tuo spazio in barca; è come se lo
spazio attorno a te si dilati, elefantiaco, schiacciandoti nel buco nero della tua bagnarola,insieme ai tuoi compagni, alle tue cose, alle tue azioni.
Con i miei compagni ci siamo subito voluti bene, come di rado succede. Ognuno a suo
modo, certo, ma che ci volevamo bene dentro il guscio della barca ed eravamo una famiglia improvvisata solo per pochi giorni l’hanno sentito tutti. Stai gomito a gomito a mangiare e bere; vestirti e svestirti; pisciare e cagare; e soprattutto a occuparti della barca, attività questa che assomiglia un po’ ai lavori domestici, solo che gli utensili e gli ambienti sono strani, i movimenti e le dinamiche inusuali. Ti occupi, insomma, di una casa che però non è una casa ma una barca che naviga. E allora devi cazzare, lascare, annodare, attraccare, mollare gli ormeggi. Il tuo spazio d’azione è minuscolo, quello attorno a te, sotto e sopra di
te, è invece infinito. Succede allora che, superati i primi imbarazzi e il primo senso di estraniamento, nel microcosmo tutto diventa un gioco e tutti vogliono giocare.
Nel nuovo gioco, come dicevo, mi sono decisa per il ruolo di cenerentola-lavapiatti, fin dal primo giorno, un po’ per essere collaborativa, ma soprattutto per interesse. Sì, proprio per interesse. Dopo pranzo, smaniavo di trovarmi a poppa finalmente tutta sola, in costume, il mio secchio azzurro ricolmo di stoviglie, la spugnetta gialla, il detersivo e il mio pacchetto di Camel. E intorno a me il lavello infinito del mar dei Caraibi, blu intenso, il luccichio del sole, gli alisei nei capelli.
“Qui potrei lavare i piatti tutta la vita!” ho esclamato senza accorgermi, a voce alta. E’ stato allora che la testa di Tania ha fatto capolino a poppa, ansiosa, perché le dispiaceva che in piena siesta qualcuno facesse il lavoro sporco. Tania è bella e dolce, ha un sorriso appena accennato, eppure ti accorgi che sorridono anche i suoi occhi chiari.“Tutto bene?” mi ha chiesto.
“Sì, sì, come no!” l’ho rassicurata, e poi ho aggiunto che mi sentivo una specie di sirena casalinga; ciocche di capelli arruffate nel vento, schiuma di detersivo sulle cosce e gli avambracci. Tuffavo le padelle in mare come una bambina quando gioca sulla spiaggia. Una Nereide del terzo millennio, insomma. Il sole scottava sulla pelle dorata. Abbiamo cominciato a chiacchierare. Amo parlare alle persone che amano ascoltare; se possibile,parlo di libri. E mentre le raccontavo di Stevenson, Melville ed Hemingway, Tania ha preso uno strofinaccio e ha cominciato ad asciugare i piatti già sciacquati. All’inizio, pensavo lo facesse per cortesia, poi ho capito che anche lei aveva capito. Lavare i piatti sulla barca non era lavare i piatti, ma significava entrare in un mondo di suggestioni, intimità e naturalezza che, nella sua semplicità, fa bene al cuore. Io e Tania quel giorno, lavando e asciugando i piatti, ci siamo raccontate un sacco di cose di noi, con e senza le parole. Ci siamo incontrate in quest’attività muliebre, arcaica, eppure sollevata dall’oppressione quotidiana proprio perché eravamo in una barca in mezzo al mare. Si sentiva che quei piatti sporchi ci avevano unite. E l’hanno sentito anche gli altri.
Si era creata una sinergia speciale tra me e Tania. Eravamo presenti l’una per l’altra. Senza che niente fosse accaduto. In apparenza.
Il giorno dopo, a lavare i piatti con lo sguardo che si perdeva in una baia selvaggia della Dominica, casualmente c’erano anche Federica e Cristina, nonostante avessero cucinato loro, e avrebbero dunque potuto pisolare sottocoperta senza remore. Invece, Cristina rollava le sigarette per tutte, io insaponavo, Fede sciacquava e Tania asciugava. Stavamo bene, in quell’armonia avremmo potuto lavare i piatti di un intero banchetto di nozze senza accorgercene. Le stoviglie unte si erano trasformate in una scusa per stare insieme, raccontarci confidenze femminili, passare piatti e bicchieri sfiorandoci le mani, e a volte il corpo.
Il terzo giorno, dopo pranzo, Mauro ha fatto irruzione nel gineceo di poppa. La sua
criniera riccioluta al vento, una specie di Medusa coi baffi all’Emiliano Zapata, e la macchina fotografica. “Reportage di attività donnesche su naviglio!” ha tuonato, e non finiva più di scattare foto e complimentarsi di come eravamo belle a lavare i piatti mezze nude. Credo che l’intuizione di Mauro abbia risvegliato emozioni maschili sopite nel resto della ciurma, perché L’Ammiraglio, che oziava al sole, si è tolto i suoi occhialini verdi da solarium, ha inforcato gli occhiali da vista ed è comparso a sovrintendere i lavori, mani sui fianchi, sguardo vigile e compiaciuto.
A cena, quella sera, c’eravamo tutti e nove a lavare i piatti, equipaggio al completo.
Il sole tramontava.
La rigovernatura si era trasformata come per incanto da onere inviso a rituale
collettivo, promiscuo e divertente. Con i piatti ce la siamo sbrigata subito, è invece durata a lungo la fase successiva, quella delle secchiate d’acqua. Se non ricordo male, è stato João a cominciare. Ha afferrato il secchio azzurro come per appenderlo, affettando una certa nonchalance. Si è girato di spalle. Ho fatto in tempo a cogliere un sorrisetto satanico e un occhio da teppista che sta per centrare una vetrata a pallonate. Infatti, velocissimo ha riempito il secchio in mare e mi ha fatto la doccia. Urla di sorpresa. La seconda vittima è stata l’Ammiraglio, che stava disquisendo insieme a Mauro sull’esattezza di certe misurazioni col sestante. Mauro e l’Ammiraglio, allora, vendicativi e inzuppati, si sono scagliati su João;
nel corso della colluttazione, sono volati in mare tutti e tre, vestiti. Secchio azzurro incluso. E’ partita allora l’escalation. Imprevedibile.Inarrestabile. Vito, l’uomo-ancora pacato e silenzioso, con un guizzo repentino ha acchiappato Fede e l’ha buttata in acqua, senza tanti complimenti. L’educatissimo Piero, a tradimento, ha spinto Cristina fuori bordo. João e Mauro issatisi a poppa, gocciolanti, hanno afferrato me e Tania e splash, anche noi a mare. Impugnavo ancora la pentola della frittura di pesce e la brandivo a mo’ di scudo per difendermi dagli schizzi. Alla fine, si sono tuffati tutti a rotta di collo. Una ciurma urlante, adolescenziale e acquatica. E’ così cominciata una lotta anfibia fatta di adescamenti, assalti, placcaggi, grida d’aiuto e di battaglia. Il mare ribolliva di spruzzi, come quando i pescatori tirano su le reti colme di tonni.
Basta così poco per essere felici.
...Continua...




Laura De Palma
Noville, Svizzera
11 giugno 2009