25 Giugno 2005. Corso di Cabinato sul Lago di Como. Lezione conclusiva.

Foto scattata sabato 25 Giugno 2005 alle ore due del pomeriggio!!!
Barca: Sette metri, forse. Un albero, di sicuro. Una bella barchetta; compatta, piena di fascino un po’ retrò. Di quelle barche vissute, dove ti fa piacere imparare perché sono consumate dal tempo e da chi, dubbioso ed allievo, si esercita con passione e buona volontà.
Istruttori: Due, Gianmaria (altrimenti detto João, o Lord Skapyn, a seconda delle latitudini) e Giovanni (no nickname all’epoca; stava preparando l’esame per diventare capitano di vascello).
Allievi: Due, Vladimir (soprannominato Vladi) e Laura (cioè io).
Oggi sono rimasta una buona mezz’ora a cercare su Google notizie di quel tornado, l’ultima sabato di giugno 2005. Como, quattro anni fa. Ha fatto scempio sul lago.
Nessuna traccia. Né su Google, né sul lago, oramai. Pensiamo che in rete ci sia tutta la nostra memoria storica, individuale e collettiva. Per fortuna ci sbagliamo, almeno sino adesso. Volevo leggiucchiare qualche articolo di quotidiani locali, ruspanti, spulciare certe foto per aiutarmi a ricordare, o forse per reinventare le mie emozioni appigliandomi a qualcosa di concreto, di tangibile. Niente da fare.
Mi piace l'attacco ma io l'ho trovato!!!
Dovrò frugare in quella giornata come si fa quando si entra in una casa disabitata da lustri. Scuoterò lenzuola che ricoprono divani e comò, solleverò nugoli di polvere, luccicante nel sole che penetra da persiane finalmente spalancate. Prenderò una ramazza di saggina rustica e spazzerò i bioccoli lanuginosi dei ricordi. Mi sembra che tutto sia accaduto una vita fa.
Mi ero decisa a frequentare un corso di vela perché luglio è un mese maledetto a Milano, ti si incolla addosso come una camicia fradicia, maleodorante; la città ti avviluppa in un mantello unto e rovente. Alle otto, una tristezza infinita soffoca il metrò: te le stai lì, avvinghiata al tuo sostegno, stipata tra centinaia di persone che sudano e sbuffano insieme a te. A San Babila la metro ti risputa fuori, nell’afa. Arrivi in ufficio dopo aver percorso poche centinaia di metri a piedi, inseguendo le ombre dei palazzi nella vana speranza di refrigerio; i tacchi a spillo affondano nel cemento dei marciapiedi, già molli alle nove di mattina. Cazzo, Anna, che caldo, attacca il condizionatore per cortesia, e mettiti una sciarpa se hai la cervicale… dobbiamo schiattare tutti perché tu hai la cervicale? I colleghi, a cui vuoi bene tutto l’anno, ti diventano insopportabili, e probabilmente tu a loro; il lavoro si accumula sulla scrivania, un macigno cartaceo; ti fai violenza per occupartene, vaffanculo, non me ne fotte niente dei deadline, il telefono squilla, che squilli, cazzo me ne frega, non ce la faccio più!
In luglio, a Milano, smarrisci il senso della vita di sempre: è la calura, la voglia di scappare lontano, di oltrepassare le colonne d’Ercole, i palazzoni che imprigionano il tuo orizzonte fisico e interiore. Le ferie, però, arrivano solo ad agosto e quindi tu soffri, rimani ottenebrata in trincea, metti croci sulle date del calendario come una recluta conta i giorni per andare in licenza.
Quattro lezioni di vela a Como, quattro weekend a luglio, mi sembravano un buon compromesso per sopravvivere: un lago non è il mare, d’accordo; per me che vengo dal profondo sud, un lago è una tinozza d’acqua fresca e cheta, i bordi frastagliati da montagne, sparpagliati qua e là di paesucci sfiziosi. Una cartolina e basta, niente a che vedere col Mediterraneo; non il mare nostrum, non lo sguardo che annega all’infinito nei secoli, nei turchesi, nei verdi, nei blu, nelle civiltà sommerse. Un lago non è che un lago, insomma. Mi sembrava pure un po’ ridicolo, devo dire, imparare ad andare in barca in un catino, un po’ come quelli che si prendono il brevetto di sub in piscina.
Naturalmente, mi sbagliavo.
E come nei poemi omerici gli dei punivano la hubris umana flagellandoli in orribili tempeste, così mi pare che il tornado abbia dato una lezione ai miei sorrisetti supponenti.
Ultimo sabato di luglio. E’ una bella giornata di sole. Allegre nuvolette a pecorelle, nuvolaglia sbiadita all’orizzonte, remota. Prepariamo la barca di buon’ora.
“Diamoci una mossa, equipaggio! Chiudiamo il corso in bellezza!” João ci raggiunge ciabattando, e ci appioppa parte dell’attrezzatura. Vladi sorseggia il caffè sul prato, più pallido del solito. E’ rientrato alle cinque di mattina dal Café Solaire, la discoteca estiva più figa di Milano. Io faccio finta di attivarmi ma al mattino lasciatemi stare; caffè, sigaretta, cesso, almeno nel weekend, abbiate pietà! Di Giovanni, nessuna traccia.
“Allora? Battiamo la fiacca?” João ci squadra, ironico, poi indica un punto vago, in alto “Forza, dobbiamo rientrare presto, oggi, al massimo dopo pranzo. La meteo annuncia burrasca per il pomeriggio.” Gira i tacchi e se ne va verso il molo.
Io e Vladi guardiamo il cielo azzurro, ci guardiamo. Zitti. Solidarietà tra sottoposti. Burrasca nel pomeriggio? E’ arrivato il Mago Silvan! Cazzo ti inventi, João, e facci carburare in santa pace! In silenzio, ci diciamo più o meno questo. Schiaccio la cicca della mia Camel nel portacenere.
E anche stamattina niente cesso! Sospiro, rassegnata.
“Eccoci, che bello, una nuova avventura!” cinguetto, invece, caricandomi di cime, giubbotti e ciambelle arancioni come un albero di Natale.
Riappare il disperso Giovanni, ci avviamo lenti alla barca insieme a Vladi, in fila indiana; sembriamo tre re magi in male arnese, appena scappati da un manicomio. João sta già trafficando, operativo, cool, efficiente. Salpiamo. Venticello allegro, mite, dopo un po’ spegniamo il motore e a vele spiegate la barca punta al centro del lago, ubbidiente. Il fiocco è gonfio, sembra il triangolo bianco di un bikini che imprigiona una tetta piena di vento. La randa è tesa, maestosa, ritta; è l’anima della barca, l’equilibrio del suo incedere. Ormai siamo tutti di buon umore. La ricetta è semplice; fai un cocktail di acqua, sole e vento, shakera per bene, versa in un flute e bevi d’un fiato: bollicine di allegria ti salgono su per il naso, fanno solletico e ti vien da ridere. La mattinata vola: io e Vladi ci esercitiamo al timone, al fiocco, alla randa. Stambate, prese di gavitello, vele a farfalla. João ci corregge quanto basta, no stress, yes you can: poche indicazioni precise, chiare, tranquille. Vladi ed io in barca siamo l’uno l’opposto dell’altra, suppongo quindi che anche nella vita siamo così. Io collaborativa, attenta, ma troppo cauta e rispettosa per essere autorevole: me ne sto appesa al timone come un granchio, mi sento le nocche sbiancate perché stringo troppo. Do istruzioni ai miei compagni quasi scusandomi, non so urlare, non so comandare. Per me è importante che tutti capiscano cosa voglio fare, e che siano d’accordo. Vladi se ne frega; è un cane sciolto. Gli altri non esistono. Sceglie e afferra le cose per primo, non aspetta, non chiede, non si guarda intorno. Lui da gli ordini, gli altri eseguono, punto. A volte prende iniziative balzane, una strambata imprevista a causa di una sua manovra stava ghigliottinando Giovanni. E, tuttavia, Vladi è assai più tagliato di me per andare in barca, questo lo so. Credo si farà strada nella vita.
Alle due ci mangiamo i nostri sandwich col salame, stanchi, felici, vele candide a farfalla. Guardo su, sospirando appagata. Il sole s’è dileguato senza avvisarci, eravamo troppo indaffarati per salutarlo: una coltre di nubi, fitta ma alta, si è srotolata in cielo, una trapunta bianca. Un tappeto lanoso, un’immensa pelle di pecora; di quelle stese davanti al camino, nelle baite dei pastori.
“Tra poco ce la filiamo, gente, sta arrivando l’acqua!” João punta il dito a sud-ovest.
Seguiamo la linea del suo braccio, poi l’indice: lontano, lontanissimo, l’ultimo pezzetto di lago si mescola a un cielo grigio scuro, quasi nero. Là piove. Vabbé, con calma, guagliò, take it easy, penso io, masticando il mio panino: se c’è una cosa che odio è abbuffarmi in fretta e furia, piuttosto salto il pranzo. Vladi fa le spallucce, solo Giovanni annuisce, serio.
João si alza e accende una sigaretta, inizia a radunare i resti del lunch.
Ora. Il casino comincia ora.
Un’improvvisa folata di vento, uno schiaffo freddo e cattivo investe fiocco e randa insieme. Un’altro, rapidissimo e in senso opposto, scuote la barca. Le vele sbattono, minacciano lo squarcio; quel rumore antico, presagio di sciagure omeriche, prende forma nell’aria. Era lo schianto che sentivo nella testa quando, bambina, leggevo degli Argonauti, la tempesta e le sirene di Ulisse, i mostri Scilla e Cariddi.

“Ce ne andiamo adesso, porca puttana!” grida João. Ha cambiato voce. Scattiamo tutti in piedi. Senza fiatare raccatto le cose fuori posto e che possono essere d’impiccio. Mi muovo rapida, mi guardo attorno e non ci credo: in una frazione di secondo, l’alta, eterea trapunta bianca è diventata una massa plumbea; bassa e pesantissima. Preme sulle vele, sulla barca, sulle nostre teste. Ci schiaccia. Non c’è più una barca in giro. Il lago, il quieto catino, si è trasformato in un mare nero, gonfio di onde. E il vento non è vento, sono raffiche micidiali che arrivano da tutte le parti. Sganciano secchiate di acqua ghiacciata, malvagia: fino a ieri avrei detto che era pioggia, ma questa non è pioggia, è un inferno d’acqua.
João grida ordini a Giovanni; devono assolutamente ammainare le vele, o ci porteranno a scoglio: ci stiamo avvicinando con una rapidità sorprendente alla riva sinistra, boscosa e irta di rocce. Io e Vladi liberiamo le cime del fiocco che sbatte come la vela logora di un vascello fantasma. Di più non possiamo fare, non sappiamo fare. La randa si prende sberle da tutte le parti. Io e Vladi sembriamo dei pupi siciliani che si alzano e si abbassano di scatto per evitarla.
“Andate sottocoperta e tenetevi forte, attenti a non sbattere!” urla João, e ha ragione perché su una barca ci sono solo due modi per aiutare: o sei esperto e fai le cose, oppure ti scegli un posto dove non rompi il cazzo, dove chi comanda ti sa al sicuro (o almeno più al sicuro possibile) e non costituisci un’ulteriore fonte d’ansia.
La barca oscilla e si inclina come i motoscafi di plastica nel lavandino di casa, quando da piccola giocavo all’uragano, agitando le mani nell’acqua e schizzando ovunque. Si capovolgevano quasi tutti; allora mi dispiaceva per loro: smettevo, li rigiravo e ricominciavo d’accapo.
Scendo sottocoperta tirandomi dietro Vladi, ha lo sguardo come vetro, è bianco che sembra lavato nella candeggina; non ho uno specchio ma scommetto che io sono cento volte peggio. Sarò verde. Sottocoperta non vedi, ma senti. Nella pancia della barca, senti la tua pancia in burrasca e non ci pensi se no vomiti. Il legno scricchiola, i colpi degli oggetti scaraventati in giro. Ti afferri come puoi alle panche, sbatti le cosce contro i sedili e senti i lividi prugna scuro che si allargano a macchia d’olio sulla pelle tumefatta. Non importa. Non fa niente, oramai. In quei momenti, so di aver pensato che forse sarei morta come un topo in una fogna, come le formiche quando allaghi i tunnel del loro formicaio. O come quegli sventurati che, durante i nubifragi, rimangono intrappolati in ascensori, sottopassaggi, macchine travolte da fiumi in piena. Quelle morti riportate per un giorno nei trafiletti dei gazzettini di provincia. Morti stupide, decise da futili coincidenze, coincidenze insignificanti, coincidenze di tutti i giorni che invece a un certo punto, chissà perché, segnano il tuo ultimo giorno. Ma chi cazzo me l’ha fatto fare, dico io, che cazzo di bisogno c’era di fare un fottuto corso di vela, minchia, porca puttana! piagnucolo incredula, la voce incrinata dalla paura, dalla rabbia di quest’assurda avventura tragicomica. Occhi lucidi. Oddio! Ci manca solo che scoppio in lacrime! In effetti, due lacrime. Una. Due. Poi basta. Sono in questa maledetta barca e non serve a niente recriminare! mi dico, a voce alta. A niente. Allora, una calma piatta, olimpica, mi invade. Sto attenta a me e attorno a me: cerco di non farmi male, dal boccaporto guardo João e Giovanni muoversi frenetici, devo aver passato loro un arpione o una cima, non mi ricordo, comunque qualcosa che serviva. Vladi ritorna su, non ce la fa a stare di sotto. Lo chiamo, non mi risponde, ha sempre gli occhi vuoti; João lo guarda un secondo ma non dice niente.
Alla fine, dopo vari tentativi, João con l’aiuto di Giovanni riesce a recuperare in qualche modo la randa, che si era incastrata e non voleva saperne di scendere. Grida a Giovanni di fare le cose. Ordini secchi, precisi, tagliati con l’accetta. Tra un ordine e l’altro impreca cazzo, ‘fanculo, porca troia. E, infatti, imprecare fa molto bene. Cerca di governare il timone per ritornare in mezzo al lago, e ora che le vele non prendono vento sembra che un poco funzioni, per lo meno non ci avviciniamo di più agli scogli già vicinissimi. Scrosci da tutte le parti, siamo fradici da strizzare. Mi sembra di stare sul set di un film muto degli anni ‘30, in bianco e nero, dove ti rovesciano addosso secchiate d’acqua e dondoli su un supporto meccanico che fa oscillare la falsa struttura di una chiglia. Dietro, un lenzuolo dove proiettano immagini di mare in tempesta e onde burrascose. A João manca solo il basco, la maglietta a strisce e la pipa tra i denti.
Non saprei dire quanto è durato. Dieci, venti minuti. Mezz’ora. Davvero, non lo so.
Poi, a un certo punto, fine.
Finito.
Finito tutto.
Vento. Pioggia. Onde. Nero.
Brezza lieve. Qualche goccia. Lago increspato. Chiaro.
Niente più.
Com’è arrivato, così se n’è andato.
Silenzio. Respiriamo.
Ci guardiamo. Nessuno dice niente.
Riprendiamo colore. Respiriamo.
Rientrando a motore verso il nostro piccolo molo di Gera Lario, prestiamo i primi soccorsi a un naufrago, rimasto avvinghiato tutto il tempo al guscio della sua deriva capovolta. Un omino tozzo, grassottello; con il giubbotto salvagente arancione sembra un omino michelin stralunato e fuori contesto. Al baretto del molo, davanti a un caffè, corrono le prime voci: contusi, feriti lievi, una trentina di barche, tra catamarani, gozzi e vele, sono ammucchiate l’una sull’altra nel porto vicino.
Non si aspettavano un tornado.
Non mi aspettavo un tornado.
Non in un catino d’acqua cheta.
Laura De Palma
Pully, Svizzera
16 luglio 2009

Note a margine a cura della redazione.
Quel pomeriggio tutte le barche (derive), in acqua al momento dell'arrivo del "Menaggino", scuffiarono e qualche cabinato affondò a causa dell'acqua imbarcata.
«Il Menaggino è un vento che scende dalla valle di Menaggio, attraversa il lago e termina la corsa contro la montagna. Arriva all'improvviso e in pochi minuti scatena l'iradiddio. »
(Aldo Ravasio, custode del Circolo Vela Bellano, 25 giugno 2005)
Per saperne di più su quel pomeriggio di un giorno da cani
Da http://cataitalia.forumgratis.biz/viewtopic.php?f=2&t=45
...Alla terza uscita in cat della mia vita, nel 2005 beccai io col mio socio e tanti altri che erano in acqua come me, che se la ricordano di certo (c'era una regata F18 a Bellano LC) il Menaggino, un vento da 50/60 nodi, il cat schuffio come quasi tutti quelli in acqua,fui soccorso ed andai al mio circolo a prendere un gommone per recuperare la barca lasciata in acqua (molti mi dissero che non si abbandona mai la barca), in 15/20 min la barca scuffiata aveva percorso quasi 10/12 km aveva superato Dervio, La ritrovai al CV Dervio su un carrello alaggio con randa e fiocco avvolti.
altro
.. il Menaggino � proprio una brutta bestia! Arriva in pochi minuti e niente e nessuno sta in piedi:
Ero uno dei pirla in assistenza su quei gommoni che arrancavano.E ho stramaledetto quel pirla decelebrato del presidente di giuria che ha dato la pertenza.Si vedeva lontano un chilometro che arrivava ma lui ha dato la partenza lo stesso.E' andata bene che nessuno si e' fatto male seriamente.Gio
Tratto dal resoconto Coppa Bellanasco 2005:
Cosa � accaduto infatti a Bellano sabato 25 giugno? Verso le 14:00, poco dopo la partenza della prima regata, si � scatenato una bufera: il menaggino, vento particolarmente temuto dai Bellanesi, si � formato nel giro di pochi minuti e ha rinforzato fino a 50-60 nodi seguito da una grossa grandinata. Nessun natante si � salvato dalla improvvisa bufera: i catamarani tutti scuffiati con gli equipaggi appesi in qualche modo agli scafi, i gommoni che arrancavano, pieni d'acqua, alla ricerca di eventuali dispersi; i vigili del fuoco prontamente allertati con tutti i loro mezzi a disposizione (compreso l'elicottero), e tutte le forze di pronto intervento della zona del lago e dei circoli di Dervio, hanno coadiuvato i soci del CVB nel recupero e messa in sicurezza di tutti gli equipaggi. Alla fine molta paura, alcuni danni alle vele e agli scafi, ma nessun serio danno alle persone, tutte recuperate.
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